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Benji: un bel testo per una grandiosa interprete
La recensione di Alessandro Paesano.
Anni fa, per caso, ho comprato questo testo, l’ho letto e poi ogni volta che sono passata davanti a una libreria ho chiesto se avevano copie di questo libro e le ho comprate. Non volevo che altri scoprissero questa storia, volevo essere io a raccontarla. Ora ci sono riuscita e ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutata.
Così racconta Paola Di Meglio, l'interprete di questo interessante e riuscitissimo monologo di Claire Dowie.
E il senso di appartenenza che Paola Di Meglio avoca non potrebbe spettarle più di diritto. Di Meglio sente il testo a tal punto da sembrare che lo abbia scritto lei, che quello che racconti sia diretta emanazione di una sua esperienza di vita, che, insomma, la protagonista della pièce sia lei. Niente di più falso naturalmente, la bravura di un'attrice si commisura alla distanza che riesce a colmare tra il personaggio e il suo vero sé, non alla facilità con cui, per caso, questo e quello coincidono.
Lo spettacolo si svolge in uno spazio angusto, tra una cattedra, un banco piccolo, di quelli dell'asilo, una lavagna al muro, fisicamente quasi a contatto con il pubblico, contatto che l'attrice cerca disponendosi anche tre le file della platea, addirittura mimando di scuotere la cenere di una sigaretta (accesa solo nella finzione) sulla spalla di uno degli spettatori, aumentando l'effetto di coinvolgimento del monologo che si rivolge direttamente agli spettatori, caratteristica del teatro Stand-Up di cui Claire Dowie è una pioniera e Paola di Meglio una sua grande interprete. Genere tipicamente anglosassone la stand-up comedy nasce come performance comica fatta di monologhi, legati solitamente al costume, e provati dagli autori, a loro rischio e pericolo, sugli spettatori dei pub, delle sale alternative, o dei piccoli teatri.
Benji non ha nulla da invidiare alle pièce drammatiche, raccontando con acume, coerenza e senza mai esagerare, le difficoltà di una giovane donna che ricorda la propria infanzia e adolescenza fatta di disagio psichico, nato più da una refrattarietà a rientrare in determinati ruoli sociali precostituiti, che causati da una malattia concretamente radicata nella sua persona. Per poter sopravvivere la protagonista si inventa un'amica immaginaria (Benji) alla quale dà la responsabilità di ogni suo gesto di ribellione, di insofferenza, di turpiloquio e violenza fisica (arriva a dare una martellata al padre, e poi se la ridà per attirare l'attenzione). Senza scadere in facili sociologismi la pièce individua le responsabilità del suo comportamento nei genitori assenti e nell'indole ribelle e prepotente della protagonista, che è sempre consapevole dei gesti che compie e della loro pericolosità. Nel raccontare le proprie emozioni, i propri sentimenti, mai riconosciuti come tali ma sempre sminuiti dietro l'ottica del rimprovero, della disobbedienza da esecrare, ogni gesto della protagonista che, agli occhi esterni di qualcuno superficiale e poco sollecito a capire le esigenze di una bambina, ha una sua logica, un suo motivo, un suo perchè. L'incomprensione e l'attrito sempre più forte nasce da una pigrizia pedagogica dei suoi genitori, o forse, come dichiara lei stessa a inizio spettacolo, semplicemente perché i suoi genitori non l'hanno mai amata. L'iter del suo disagio psichico nasce da una doppia incapacità quella della protagonista che da bambina non sa comunicare i prpri sentimenti e le prorpie necessità affettive, e quella, molto più eserabile, dei suoi genitori, che non sanno accrogersi di quei bisogni. Sentimenti normali, bisogni comuni, nei cui tratti possiamo in parte riconoscerci un po' tutti, una bella intuizione dell'autrice che sa che la malattia mentale è dietro la porta in agguato per ongnuno di noi e non è quasi mai quell'eccezionalità cui tanto cinema americano (e non) ci hanno abituato, quanto piuttosto quotidiana sofferenza, banale anormalità.
Dalla casa al manicomio e poi alla comunità la protagonista ci racconta le tappe di un percorso che la porta inevitabilmente ad adeguarsi alla vita normale grazie ai farmaci e alla pet terapy (un cane, proprio come quello di una signora anziana, l'unica che le rivolgeva la parola senza rimproverarla, senza dirle quel che doveva essere e quel che non era). E alla conclusone dell'atto unico grava nell'aria la malinconia per l'ineluttabile perdita di una immaginazione anche malsana ma viva, vera e spontanea (lo so di essere troppo grande per avere un'amica immaginaria) cui la protagonista deve rinunciare per poter rientrare nei ranghi.
Benji è un esempio di teatro ben scritto e ottimamente recitato, uno di quei testi che grazie all'attrice che lo incarna, ti si pongono davanti come un'esperienza emotiva che difficilmente si dimentica. La controprova è lo stato d'animo dell'attrice che si prende i numerosi e meritati applausi mentre è ancora un po' in parte, perché non è facile uscire all'impronta da un personaggio, da un'emozione, da un sentimento, quando vi ci si crede davvero come Paola Di Meglio che li interpreta con tutta se stessa, sapendo da sempre essere suoi. Aveva proprio ragione.
Visto il 19/01/2010 a Roma (RM)
Teatro: Dell'Orologio
Sala Artaud
Voto: